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Data: 21/11/2014

Il concetto e il ruolo delle ONG sta evolvendo e sembra destinato a cambiare significativamente nei prossimi anni. Le nostre istituzioni, anche all’interno del nuovo quadro normativo, cosa si aspettano dalle Organizzazioni Non Governative? Qual è il contributo che dovrebbero apportare al sistema italiano della cooperazione?

Il cambiamento è parte di quella trasformazione verso un’”economia della promozione umana” di cui parlavo. Mi aspetto che le ONG completino la loro trasformazione, già in atto da tempo, dal “non essere qualcosa” (non governative) ad attori di sviluppo e solidarietà sempre più efficienti, stimolanti e moderni. Il loro cambiamento si dovrà incrociare con la legge di riforma del Terzo settore, le Ong usciranno dalla nicchia specializzata del vecchio “terzomondismo”, dovranno avere standard di trasparenza, accountability, “professionalità” più esigenti e magari si sposteranno sempre di più dall’area dell’associazionismo volontario a quella dell’impresa sociale. Sono cambiamenti già in itinere e che garantiscono al sistema della cooperazione una maggiore coerenze ed efficacia degli aiuti, realizzano una forte sussidiarietà tra pubblico e privato no profit, autorizzano il proporsi della società civile internazionale come interlocutore preparato nella definizione delle strategie politiche di sviluppo.
La sfida, però, è anche non perdere la specificità italiana di innovazione sociale e partecipazione reale e diffusa così caratteristica delle nostre ONG che animano parrocchie, quartieri e città e coinvolgono migliaia di volontari. Occorrerà, in questo caso, valorizzare e rinnovare i partenariati territoriali, stimolare forme di progettualità in comune e rafforzare il legame delle organizzazioni più piccole con Comuni e Regioni.
A tutti si chiede ora di fare un passo ulteriore nello studiare e stimolare partnership con il provato profit, inventare percorsi di co-sviluppo basati su un’economia della promozione umana. Non aver paura ad andare oltre l’assistenza, il welfare e l’educazione, impegni ovviamente prioritari, verso un effettivo empowerment delle popolazioni sul piano dell’economia delle comunità.

Lei ha più volte parlato di “Purple Cooperation” riferendosi al nuovo modello di cooperazione allo sviluppo. Ci spiega meglio cosa intende?

È per l’appunto l’idea di una sinergia forte tra la cooperazione basata sui soldi pubblici e l’aiuto tradizionale (red cooperation), destinata ai low income countries e ai progetti di promozione del welfare di base (scuole, salute, infrastrutture), rossa perchè indispensabile e legata a emergenze ed esigenze ineliminabili, e la cooperazione che sempre più coinvolge i privati (profit e no profit) e che io chiamo “blue” mossa da motivazioni filantropiche (le fondazioni e le grandi charities internazionali) o da esigenze di marketing sociale o responsabilità sociale di impresa, a volte dalla volontà di investire sulla futura creazione di un mercato, sempre attenta allo sviluppo del settore privato e dell’ambiente imprenditoriale nel Paese partner. La fusione di rosso e blu dà vita a un nuovo colore della cooperazione il viola (purple). Se ci sta a cuore rendere autonomi i nostri partner e creare sviluppo attraverso “decent jobs” senza costruire un’eterna dipendenza dai nostri aiuti, non si può prescindere dal coinvolgimento del settore privato in Italia, per intercettare risorse, aumentare l’efficacia e promuovere il rispetto degli standard ambientali e sociali delle aziende che vanno all’estero, e nei Paesi partner dove il settore privato profit deve diventare motore dello sviluppo.
Uso un’espressione anglosassone anche per sprovincializzare la nostra azione, promuovere la nuova Agenzia e la nuova cooperazione come attore autorevole nello scenario internazionale accanto agli inglesi, agli svedesi, ai tedeschi, stimolare l’ambizione dell’Italia a dire la sua, dare ritmo e idee ai processi di co-sviluppo e alle strategie internazionali.


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